martedì 12 maggio 2009

Michael Jordan




Michael Jeffrey Jordan (pron. IPA: /ˈmaikl ˈdʒefri ˈdʒɔːd(ə)n/; Brooklyn, 17 febbraio 1963) è un ex cestista statunitense. Attualmente è co-proprietario e Managing Member of Basketball Operations dei Charlotte Bobcats.

Annoverato tuttora fra le personalità più popolari al mondo, Michael Air Jordan, in virtù dei titoli conquistati, i primati personali conseguiti e soprattutto per l'impatto rivoluzionario del suo stile di gioco sullo sviluppo della pallacanestro moderna, è ritenuto con molta probabilità il più grande atleta di ogni tempo.

La sua maglietta numero 23 dei Chicago Bulls e la sagoma della sua tipica schiacciata a gambe divaricate, divenuta poi il marchio commerciale delle linee di abbigliamento a lui dedicate, sono tuttora suoi simboli inconfondibili e veri e propri bestseller fra gli appassionati di basket.

Nella sua lunga e prolifica carriera gli sono stati dati una moltitudine di soprannomi: Air è certamente il più famoso e il più diffuso, al quale si aggiungono His Airness ("Sua Ariezza"), MJ, Jesus in Sneakers ("Gesù in scarpette da ginnastica").

Biografia di MIcheal Jordan

Le origini e la famiglia
Michael Jeffrey Jordan nasce il 17 febbraio 1963 nel quartiere di Brooklyn, a New York, dove i genitori James, meccanico in una centrale elettrica, e Delores Jordan, impiegata in una piccola banca, si erano appena trasferiti. Presto, però, la famiglia si trasferisce nuovamente, questa volta a Wilmington, nella Carolina del Nord[1], dove Michael studia e cresce con il fratello maggiore Larry, che lo batte sempre nelle sfide uno-contro-uno a basket, e la sorella Rasalyn.


I primi studi e l'esclusione dalla squadra della scuola [modifica]
Il giovane Michael è un ragazzo molto timido; frequenta addirittura un corso di economia domestica, per paura di non riuscire a trovare una donna da sposare una volta cresciuto. Di conseguenza, impegna tutte le sue energie nello sport per cercare di emergere, praticando numerose attività: pallacanestro, baseball, football americano, golf, nuoto e altri, insieme ai fratelli.

Jordan non eccelle nello studio, che non lo interessa più di tanto, ma comincia a farsi notare negli sport, brillando soprattutto nel football americano (come quarterback) e nel baseball (come lanciatore). Anche nel basket il ragazzo se la cava, ma, paradossalmente, quello che diventerà il più ammirato giocatore di tutti i tempi viene escluso dalla squadra di basket della sua scuola, la Laney High School, quando era un sophomore, dato che alle selezioni l'allenatore non lo ritiene abbastanza dotato.

Invece di perdersi d'animo, Jordan si allena per un anno intero per conto proprio, pronto a ripresentarsi alle selezioni dell'anno seguente.

Nel frattempo, all'età di 15 anni, per la prima volta riesce a schiacciare nel corso di una partita di street basket in un playground. Era alto 1 metro e 80. È solo l'inizio della leggenda di Air. Finalmente il talento emerge, assieme alla sua crescita fisica (più di 10 cm in un anno)[2]: alle selezioni questa volta viene subito scelto, e già nelle prime partite giocate si conquista la fama di dunker ("schiacciatore" in slang), grazie alle stupende schiacciate che è in grado di fare, ben al di sopra della media dei suoi coetanei.

L'anno di duro lavoro dà i suoi frutti: viene inserito nella prima squadra, divenendo subito famoso in tutto lo stato della Carolina del Nord, risultando uno dei migliori giocatori del campionato scolastico disputato.

La stagione prosegue per Jordan e i Buccaniers, (questo il nickname dei giocatori della Laney High Scool), che vincono il campionato, anche grazie all'apporto di Jordan, che viene convocato per l'All-Star Game delle high school.[3]


Gli anni della North Carolina University
Il numero 23 di Jordan appeso al soffitto del Dean Smith Center Jordan con James Worthy e Dean Smith, rispettivamente compagno di squadra ed allenatore al collegeNel primo anno di università Jordan si rivela sempre di più un giocatore spettacolare ed eccitante, ma ancora non riesce ad imporsi come un vero leader della squadra.

Il suo anno da freshman (nickname proprio degli studenti al primo anno di college) termina, tuttavia, in grande stile: nella finale per il titolo NCAA del 1982, Jordan mette a segno il tiro decisivo allo scadere del tempo, regalando così alla sua squadra il titolo[2] grazie a quello che nel tempo è diventato famoso come "the shot", ovvero "il tiro". È l' inizio dell' ascesa di Michael Jordan.

Già nel suo secondo anno è chiaramente la stella della squadra, e nel terzo viene eletto "giocatore nazionale" dell'anno.[senza fonte] Decide dunque di lasciare prematuramente l'università (si laureerà solo qualche anno dopo) per dedicarsi alla NBA.


Olimpiadi 1984: il primo oro
Nel frattempo, però, prima di dedicarsi al mondo della pallacanestro professionistica, partecipa durante l'estate ai Giochi olimpici estivi di Los Angeles 1984, nella nazionale statunitense guidata da Bobby Knight, vincendo il suo primo oro olimpico. Fino al 1988, gli USA, infatti, portarono alle Olimpiadi una formazione composta solo di giocatori universitari, e non di atleti professionisti. Difatti non venne convocato per i Giochi Olimpici di Seoul 1988, in quanto ormai professionista.


Il draft e l'arrivo nella NBA
Jordan viene scelto dai Chicago Bulls come terza scelta assoluta nel primo giro del draft NBA del 1984, dietro Hakeem Olajuwon e Sam Bowie.

Il fatto che Jordan non sia stato la prima scelta assoluta, col senno di poi, può apparire un incredibile errore da parte degli scout NBA. Tuttavia questa situazione non deve stupire: altri fuoriclasse, come Larry Bird o Kobe Bryant hanno avuto una sorte simile ed il draft del 1984 è generalmente considerato il più ricco di tutta la storia dell'NBA, comprendendo un numero impressionante di future stelle, fra i quali è doveroso ricordare Charles Barkley (5a scelta assoluta) e John Stockton (16a scelta), oltre ai già citati. Tradizionalmente le squadre NBA privilegiano la scelta di centri rispetto a guardie o ali, seguendo alla lettera la frase del mitico allenatore di UCLA, John Wooden che diceva "Nel basket si può insegnare tutto meno che l'altezza".

In tal senso, la prima scelta assoluta nel draft di Hakeem Olajuwon, un centro dal talento cristallino, e probabilmente più affermato di Jordan a livello universitario, fu considerata una decisione assolutamente logica e condivisa dall'intera critica.

Meno condivisa la scelta dei Portland Trail Blazers di chiamare Sam Bowie come numero 2, spesso citata come la più sciagurata della storia dei draft NBA.[senza fonte] Tuttavia è necessario chiarire che Sam Bowie era considerato un centro di enorme talento con un curriculum NCAA di altissimo profilo, e che molti critici ritengono che le sue alterne fortune in campo professionistico siano soprattutto da imputare all'incredibile serie di infortuni che lo perseguitò, fra cui quattro consecutivi nei primi due anni di professionismo. Non è poi da escludere che il fatto di essere quotidianamente comparato a talenti del calibro di Jordan, Olajuwon o Barkley e di sentirsi costantemente rinfacciare i grandi traguardi conseguiti da questi campioni, tanto da vedersi rapidamente appiccicare addosso il crudele nomignolo di bust ("fallimento", "bidone"), abbia avuto un impatto fortemente negativo sul rendimento di un giocatore che, comunque, ha giocato nell'NBA per 11 anni con statistiche di buon livello.

Inoltre, per giustificare almeno in parte la scelta di Portland, è doveroso ricordare come al draft dell'anno precedente questa franchigia avesse scelto Clyde Drexler, praticamente pariruolo di Jordan ed a sua volta considerato uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi, tanto da essere incluso nella Basketball Hall of Fame.

Infine va considerato che molti critici nutrissero dei dubbi sul fatto che lo stile di gioco di Michael Jordan, basato sulla velocità e l'esplosività fisica, potesse avere un impatto vincente anche a livello NBA, dove avrebbe incontrato giocatori atleticamente e tecnicamente molto più dotati che non nel torneo NCAA.

Al momento del suo arrivo, la squadra dei Bulls è una delle peggiori della NBA, avendo disputato diverse stagioni letteralmente disastrose, e fra quelle con meno spettatori, tanto da aver valutato l'opportunità di spostarsi da Chicago per cercare maggiore pubblico. Sarà proprio intorno a Michael Jordan che si formerà, a poco a poco, una nuova squadra, che arriverà poi a essere la dinastia che ha dominato la lega statunitense negli anni '90.

La sua non eccezionale altezza (1,98 m, o 6'6") risultava largamente compensata da una velocità d'esecuzione e una potenza atletica fuori dal comune, che lo rendevano una minaccia versatile sul parquet di gioco, capace di giocare sia come playmaker che come ala piccola, oltre alla sua posizione tipica di guardia tiratrice.

Il suo esordio in campionato avviene contro i Washington Bullets (guarda caso proprio la squadra che, con il nome di Washington Wizards, è stata l'ultima squadra di Michael Jordan). In quella partita mette a segno ben 16 punti e porta Chicago alla prima di tante vittorie che si susseguiranno negli anni a venire. Il talento e gli sforzi di Jordan vengono premiati con la convocazione per la partita delle stelle nel mese di febbraio, l'NBA All-Star Game, e dopo pochi mesi viene premiato come matricola dell'anno.[2]


I Chicago Bulls: i primi anni
Jordan salta per una schiacciataLa seconda stagione con i Bulls, però, non la inizia nemmeno: il 25 ottobre 1985 si infortuna alla caviglia durante una partita di preseason contro i Golden State Warriors. Per Jordan sono cinque mesi di stop.

Il 14 marzo 1986 rientra sul parquet con 18 partite di regular season ancora da disputare. Questa scelta ha luogo dopo una certa disputa fra Jordan e la dirigenza dei Bulls che preferirebbe perdere qualche partita in più in modo da ottenere maggiori chance di avere un'altra scelta alta al draft dell'anno a seguire. D'altra parte, dopo tutte le aspettative accese nel pubblico l'anno precedente, Jordan smania dal desiderio di dimostrare le sue capacità ancora una volta e con un finale di stagione regolare fantastico trascina i Bulls ai play-off.

Nella post-season ottiene un risultato incredibile, un record tuttora imbattuto che da solo vale la stagione: segna 63 punti contro i Boston Celtics del grande Larry Bird, che esclamerà a fine partita: "E' Dio travestito da Michael Jordan"[4]. Resterà la miglior prestazione di sempre quanto a punti segnati in una gara di play-off.[senza fonte]

L'estate del 1986 è l'inizio del nuovo corso dei Chicago Bulls, e la nuova squadra inizia a prendere forma attorno a Jordan, sempre più leader.

Il terzo campionato NBA è quello della conferma per Jordan, che per la prima volta vince la classifica marcatori, con 37,1 punti di media a partita[5]. Il ruolino di marcia di Jordan è assolutamente incredibile: nelle 82 partite della stagione regolare, 77 volte Jordan è il miglior realizzatore della sua squadra, per due volte segna 61 punti, per otto volte supera i 50, per addirittura trentasette volte ne mette 40 o più. Supera la soglia dei tremila punti in una sola stagione (3041), segnando il 35% dei punti totali della squadra.

Tutto questo, però, non deve distogliere l'attenzione dalla grandissima applicazione in difesa, spesso trascurata. È il primo giocatore della storia a concludere un campionato con almeno 200 palle recuperate e 100 stoppate. Queste saranno le cifre che faranno ottenere a Jordan il titolo di Premio NBA difensore dell'anno, per il 1988.

Nel 1987-88, durante una partita disputata contro gli Utah Jazz a Salt Lake City, Jordan schiaccia in testa a John Stockton (alto "solo" 185cm). Un tifoso nel parterre si alza in piedi e urla sdegnato a Jordan di provare a schiacciare in testa ad un avversario della sua stessa altezza. Nell'azione successiva, Jordan schiaccia in testa al mastodontico Melvin Turpin (211cm, 13 più di Jordan) e si rivolge al tifoso con un'occhiata divertita per sapere se era grosso abbastanza.[6]

Durante le edizioni del 1987 e del 1988 dell'NBA All-Star Game vince alla grande lo Slam Dunk Contest, la gara delle schiacciate, e viene consacrato con il soprannome Air per la sua grandiosa capacità di volare a canestro e restare in aria, suggellata da una storica schiacciata staccando dalla linea del tiro libero.

Negli Stati Uniti diviene un idolo ed il suo nome e la sua immagine diventano popolarissimi. In poco tempo, diviene una sorta di "Re Mida" della pallacanestro, siglando contratti favolosi con marche di ogni tipo, tra le quali la Nike, che gli dedica prima una serie di scarpe e poi addirittura una linea completa di vestiario. Apre un ristorante a Chicago, dove si riserva una sala isolata per poter mangiare senza essere assediato dai fan. Anche il valore complessivo dei Bulls cresce in maniera inimmaginabile: passa da 16 a 120 milioni di dollari.

Tuttavia, non tutti gli appassionati e addetti ai lavori sono ancora pienamente convinti del suo assoluto valore: per molti è uno dei tanti atleti dotati di talento che però non saranno mai vincenti perché troppo solisti. In quegli anni quindi, non c'è ancora unanimità sul fatto che Michael sia il miglior giocatore del momento, e alcuni, se non molti, ancora gli preferiscono Magic Johnson che riesce a condurre i suoi Los Angeles Lakers ad un'impresa che nell'NBA non riusciva da ben 19 anni: ovvero, vincere il titolo due volte consecutivamente, "back-to-back" come sentenzia lo slang cestistico americano.

In realtà, questa idea che a volte emerge di un Micheal solista è dovuta al fatto di avere compagni di squadra non all'altezza di giocare con lui: ciò lo porta a volte a intraprendere più iniziative del normale, ma solo in vista del bene della squadra e non della glorificazione personale. Infatti, i suoi Chicago Bulls crescono anno dopo anno finché alla fine del decennio cominciano ad essere considerati uno dei top team della Lega, anche perché gradualmente vengono aggiunti alla rosa dei Bulls nuovi giocatori che ne completano le lacune. Su tutti, nel draft del 1987 verrà preso Scottie Pippen, che avrà una capacità di evoluzione tecnica ineguagliabile diventando una delle ali piccole più forti di sempre.

Sulla loro strada c'è però una delle compagine più forti di sempre: i Detroit Pistons di Isiah Thomas, Joe Dumars e Dennis Rodman, i cosiddetti Bad Boys per il loro modo maschio di affrontare le gare, specialmente le più decisive. Abbinato a valori individuali notevoli ed un amalgama di squadra ferreo, diventano una formazione troppo dura da superare per chiunque, e, se concedono ai Los Angeles Lakers la loro prima finale (1988), li surclasseranno l'anno successivo nella rivincita (4-0 nelle finali) e ripeteranno subito il back-to-back appena realizzato dai californiani.

Michael Jordan se li ritrova nella Midwest Division, e quindi li affronta nelle finali della Eastern Conference; dopo avergli già cozzato contro un paio di volte, il 1990 sembra l'anno buono: arrivati in gara-7 a Detroit (che ha un miglior score in regular season), finisce 93-74 per i "Pistoni" con partita già chiusa nei primi minuti e l'aneddoto di Jordan che spacca una sedia al rientro negli spogliatoi nell'intervallo per esprimere la rabbia sullo scarso rendimento se non impegno dei propri compagni. Il disappunto di Michael è aumentato dal fatto che con molti giocatori di Detroit vive una rivalità anche extra-sportiva, con continui frecciate nelle interviste anche con riferimenti extra-cestistici.

Al di là degli scetticismi, e nonostante non fosse ancora riuscito ad arrivare nemmeno ad una finale assoluta NBA, tuttavia alcuni già considerano Jordan il più forte cestista di tutti i tempi: difatti, il suo gioco, elettrizzante da un punto di vista spettacolare, rasenta la perfezione anche su un piano tecnico, e in molti si fa strada la convinzione che non è possibile giocare meglio.

Il tempo sembra comunque essere maturo. Vincente si rivelerà la strategia societaria dei Chicago Bulls: invece di stravolgere la squadra ogni anno e cercare giocatori affermati qua e là per rinforzarne il pacchetto, lo staff manageriale e quello tecnico, guidato da coach Phil Jackson, decidono di confermare anno dopo anno la rosa che hanno a disposizione e lasciar crescere la squadra sia a livello individuale che collettivo.


Gli anni '90: il primo three-peat
La vera consacrazione di Michael come dominatore assoluto del basket mondiale, arriva all'inizio degli anni novanta, quando i Bulls raggiungono un livello di gioco che coniuga un mix esplosivo di talento, creatività e spettacolo uniti al sacrificio e alla dedizione verso la fase difensiva del gioco, illuminati da Jordan che gioca una pallacanestro a livelli ineguagliabili, rasente il limite della perfezione mai vista prima e mai più rivista da nessun giocatore dopo di lui.

In tre anni, nel 1991 contro i Los Angeles Lakers di Magic Johnson e James Worthy, nel 1992 contro i Portland Trail Blazers di Clyde Drexler e nel 1993 contro i Phoenix Suns di Charles Barkley, Kevin Johnson e Dan Majerle, i Chicago Bulls vincono tre titoli NBA in fila, realizzando il cosiddetto three-peat (gioco di parole traducibile più o meno come tri-petuto che fonde il numero "three" e il termine "repeat") riuscito solo ad altre 2 squadre nella storia della NBA.

Nei play-off, ed in particolare nelle finali, Michael è semplicemente inarrestabile, polverizzando un record dietro l'altro (su tutti quello di più alta media realizzativa di punti in una serie di finale con la strabiliante cifra di 40 punti, stabilito nel 1993 contro i Phoenix Suns), e vincendo anch'egli tre titoli consecutivi di MVP delle finali NBA (altro record, in quanto cosa mai riuscita a nessun altro giocatore nella storia della NBA fino ad allora, solo in seguito (2000/2001/2002) Shaquille O'Neal saprà ripetere tale impresa).

Nel 1991 la superiorità dei Bulls comincia ad emergere nella seconda parte della regular season, tanto che i Bulls sono unanimemente accreditati come una delle favorite per il titolo: Detroit, pur ancora massimamente competitiva, sembra aver esaurito il suo impeto agonistico tanto che per la prima volta colleziona un record di vittorie in stagione inferiore a quello dei Bulls, accumulando nette sconfitte negli scontri diretti. Nuovamente affrontata in Finale di Conference, Chicago surclassa Detroit con un cappotto (4-0) che spingerà i "Pistoni" ad abbandonare il campo qualche minuto prima della fine di gara-4 per non poter sopportare una tale umiliazione.

Ad Ovest c'è Portland con il miglior record in regular season, ma è battuta nella Finale della Western Conference dagli esperti Los Angeles Lakers: la finalissima sarà Michael contro Magic, il meglio che questo sport potesse offrire. Pagato lo scotto dell'inesperienza in gara-1, vinta all'ultimo secondo dai Lakers, in gara-2 i Bulls, capitanati da Jordan, esprimono tutto il loro potenziale e travolgono i Lakers con il maggiore distacco in una Finale NBA; entusiasmante il terzo quarto, in cui Jordan realizza uno dei suoi canestri più memorabili: al termine di un contropiede secondario si alza in volo per la sua classica schiacciata ad una mano in una selva difensori; per non umiliarli troppo, dato già il pesante passivo accumulato nel punteggio dai Lakers, all'improvviso ritira il braccio e appoggerà al tabellone nella fase di ricaduta, quando ormai il suo corpo è quasi a terra nascosto tra le maglie dei "Lacustri". Con una grazia cristallina, il pallone entrerà nel canestro senza che nessuno abbia capito come avesse potuto succedere. In una intervista, anni dopo, rivelerà che il cambio di intenzione fu in realtà dettato dall'impressione che un nuovo difensore stesse sopraggiungendo. Magic Johnson, commentando quello stesso canestro da "vittima-spettatore" disse anni dopo di non riuscire a credere che Jordan lo stesse facendo davvero e che lo stesse facendo a lui.

Nel 1992 molti sono gli scettici riguardo ad una riconferma dei Bulls come squadra al vertice, ritenendo il successo dell'anno prima come il massimo sforzo fatto dal grande campione per arrivare finalmente ad un titolo. Ma già da subito la stagione regolare è dominata dai Bulls, più carichi e motivati che mai e con il solito rendimento mostruoso di Jordan; all'arrivo dei playoff si pensa che sia difficile strappargli anche una sola partita. Gli unici che possono pensare ad insidiarli sono i Portland Trailblazers di Clyde Drexler, considerato il diretto rivale di Jordan sia perché ritenuto il miglior giocatore della Lega professionistica al di fuori di lui, sia perché riveste il suo stesso ruolo che interpreta tra l'altro in maniera analoga. Tuttavia sulla strada dei Bulls c'è un ostacolo imprevisto: al secondo turno dei playoff ad Est arriva una squadra emergente, i New York Knicks del nuovo allenatore Pat Riley. Si tratta di una squadra che vede la presenza di un solo grande giocatore, il centro Patrick Ewing, ma che ricalca il modo di giocare duro dei Detroit Pistons di qualche anno prima, che tante difficoltà aveva creato ai Bulls. Michael e i suoi sono costretti a giocarsi tutto in gara-7, quando con il senno di poi, si deciderà un pezzo della storia di questo sport. Vinceranno senza troppe difficoltà e d'ora in poi non avranno grossi ostacoli verso la conquista del loro back-to-back (ormai una tradizione) nonostante concedano 2 gare in ciascuna delle serie contro Cleveland e Portland in Finale.

Il suo scontro diretto con Drexler viene deciso fin dalle prime battute: nella gara-1 delle Finali andrà a riposo nell'intervallo del primo tempo con l'incredibile score personale di 35 punti, cui contribuisce una entusiasmante serie di 6 canestri consecutivi da 3 punti, conditi da altre giocate mozzafiato. A seguito dell'ennesimo canestro da tre, rimane famosa un'occhiata di Jordan che alza le spalle come a dire "che ci posso fare? Entrano tutte...". Il pubblico del Chicago Stadium è in delirio e in ogni angolo del pianeta che guarda l'NBA si salta sulle sedie; anche in Italia, nonostante fossero le 3 di notte.

Le finali del 1993 presentano una variante sul tema: esplode il fenomeno Charles Barkley che, passato in estate da Philadelphia 76ers ai Phoenix Suns per ambire ai massimi traguardi, disputa una stagione eccezionale conducendo il suo team al miglior record nella stagione regolare, superando anche i Bulls che sembrano leggermente appagati. La critica elegge Barkley MVP, quale miglior giocatore della regular season, osando "ignorare" Jordan che comunque si mantiene ai suoi livelli; nonostante l'eccezionale performance di Barkley, per molti suona come un tentativo di contrastare con il domino assoluto in tutti i campi, anche mediatico, di Jordan e dei suoi Bulls. La resa dei conti sarà nella Finalissima, cui giungono entrambe le squadre e che risulterà la più equilibrata tra quelle del primo three-peat.

Con i Bulls in vantaggio 3-2, si ritorna in Arizona per le sfide decisive: gara-6 sarà al solito molto combattuta e si arriva all'ultimo possesso con i Bulls palla in mano e sotto di 2 punti. Un eventuale gara-7 li vedrà giocarsi il titolo in una partita secca giocata fuori casa. Jordan è stato l'autore di tutti i 9 punti finora effettuati dai Bulls nel 4° quarto e, come logico, si incarica del tiro; raddoppiato dalla difesa di Phoenix trova la lucidità, l'umiltà e la fiducia di affidare la palla a Scottie Pippen, il quale vede sotto canestro smarcato Horace Grant, il quale potrebbe comodamente appoggiare per il pareggio. Tuttavia costui è in profondissima crisi di gioco, avendo segnato in due partite la miseria di 2 punti e avendo poco prima sbagliato diverse conclusioni facili. la palla è quindi repentinamente ceduta a John Paxson, appostato sull'arco da 3 punti, per il tiro che varrà non solo il pareggio ma la vittoria della partita e della serie: è il 3° titolo consecutivo. Michael dirà: "questa vittoria mi pone su un piano diverso rispetto a Magic e Bird". Una situazione analoga si ripeterà in futuro, con Steve Kerr nei panni di John Paxson.


Olimpiadi 1992: il Dream Team e il secondo oro
Nell'estate 1992, Jordan, dopo aver vinto il suo secondo titolo, partecipa ai Giochi olimpici estivi di Barcellona 1992, dove si tiene la prima apparizione di giocatori professionisti della NBA ai Giochi olimpici. Jordan viene incaricato del ruolo di capitano della squadra insieme a Magic Johnson e Larry Bird.

Jordan è una delle stelle del Dream Team originale, quella che è considerata da tutti gli esperti come la squadra di pallacanestro più forte di tutti i tempi; accanto a Michael vi sono, infatti, altri grandissimi campioni: il compagno di squadra Scottie Pippen, Magic Johnson, Larry Bird, Charles Barkley, Clyde Drexler, Patrick Ewing, Karl Malone, David Robinson, John Stockton, Chris Mullin e l'universitario Christian Laettner, guidati dal coach Chuck Daly.

È il secondo oro olimpico per MJ, che si dimostra protagonista assoluto della squadra statunitense, risultando il secondo miglior marcatore della squadra (dopo Charles Barkley).


La morte del padre e il primo ritiro
Il padre di Jordan, James, venne assassinato nel 1993. Di ritorno dal funerale di un amico, decise di fermarsi sul bordo di una autostrada interstatale nella Carolina del Nord per riposarsi un po'. Mentre stava dormendo, due criminali locali si fermarono, lo uccisero e rubarono la sua Lexus, che gli era stata regalata proprio da Michael. Gli autori del fatto furono rapidamente rintracciati poiché avevano effettuato alcune chiamate con il telefono cellulare della vittima[7].

Il 6 ottobre 1993, in una conferenza stampa sovraffollata di giornalisti, Michael comunica alla Lega e al mondo la sofferta decisione di lasciare la pallacanestro. Le sue parole sono: "Ho perso ogni motivazione. Nel gioco del basket non ho più nulla da dimostrare: è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere. Tornare? Forse, ma ora penso alla famiglia."

Insieme alla perdita degli stimoli, è la morte del padre ad incidere sulla difficile decisione presa da Michael.[8] James Jordan era stato un grande appoggio per il figlio, che gli era profondamente affezionato, e lo aveva sempre incitato, anche se avrebbe preferito vederlo giocare a baseball, il suo sport preferito.

Il mondo del basket è stravolto da questa decisione, e di colpo si ritrova senza il suo uomo simbolo. Più di tutti, sono i suoi milioni di fans in tutto il mondo a sentirsi all'improvviso orfani di ciò che aveva incarnato i loro sogni e le loro ambizioni, di un giocatore che era qualcosa di più di un giocatore, "trasformando la pallacanestro in una forma d'arte". Ciò porta anche ad atteggiamenti paradossali fra i più giovani: alcuni si presentano ai campi da gioco con il segno del lutto sulla canottiera. Evitando facili censure, si può concepire come la presa di coscienza che con il suo ritiro moriva tutto ciò che egli aveva incarnato, giacché nessun altro ne avrebbe potuto ripercorrere le gesta. Non era solo un fatto tecnico: Michael Jordan è stato il primo "atleta globale", cioè capace di canalizzare da solo l'attenzione di fans di tutto il mondo superando i confini di nazionalità, cultura, tradizioni sportive locali. Nell'ammirazione delle sue imprese ci si sentiva parte del respiro del mondo. Superata infatti la disputa sul se fosse il giocatore migliore di pallacanestro di tutti i tempi, Jordan è ormai paragonato ad atleti come il pugile Muhammad Alì in quesiti del calibro: "Jordan è il miglior atleta di tutti i tempi?".

Il 9 settembre 1994, un anno dopo il suo ritiro, gioca un'ultima volta al Chicago Stadium, prossimo alla demolizione, in una partita di beneficenza organizzata da Scottie Pippen, uno dei compagni di squadra "storici" e grande amico. Nel nuovo impianto, lo United Center, viene tenuta qualche giorno dopo la cerimonia ufficiale d'addio del giocatore, con il ritiro della maglia numero 23.

Davanti al nuovo stadio della "città del vento" viene posta una grande statua di Jordan impegnato in una schiacciata con una targa con le parole: "The best there ever was, the best there ever will be", ovvero "il migliore che ci sia mai stato, il migliore che mai ci sarà".


La carriera nel baseball
"Voglio dimostrare di poter primeggiare anche in un'altra disciplina". Con queste parole, e sempre per la devozione verso il defunto padre, Jordan tenta la carriera nel baseball professionistico, sognata fin da ragazzo. L'amore del padre appena scomparso per questo sport fu probabilmente la motivazione più forte che spinse Jordan a ritirarsi dalla pallacanestro per dedicarsi alla sua nuova carriera. [9]

In realtà, nonostante la grande aspettativa del pubblico nei confronti del campione, Air ottiene risultati abbastanza modesti. Viene ingaggiato dai Birmingham Barons, seconda squadra dei Chicago White Sox impegnata in una lega minore, nei quali ottiene una media di battuta di 0,202, con 3 HR, 51 RBI, 30 SB (quinto nella Southern League a pari merito), 11 errori e 6 assistenze.[10]

I risultati modesti fecero salire la pressione di giornalisti e tifosi che, aspettandosi qualcosa in più dall'ex-superstar NBA, iniziarono a criticare Jordan, ipotizzando anche che il suo ingaggio fosse più dovuto ad un fattore pubblicitario che ad altro.


"I'm back": il ritorno
I risultati non soddisfano l'orgoglio del campione, che dopo un anno e mezzo circa torna a casa, dichiarando conclusa la sua carriera di giocatore di baseball.

Milioni di tifosi in tutto il mondo iniziano a sperare concretamente in un suo ritorno quando viene diffusa la notizia che Jordan si è allenato per due giorni consecutivi con i Bulls. La ESPN, la più importante rete televisiva sportiva statunitense, interrompe tutti i programmi per dare la notizia di un suo possibile ritorno. La Nike, sponsor storico di Jordan, invia 40 paia di scarpe targate Air Jordan ai Bulls.

È il 18 marzo 1995 quando, alle 11:40, viene diramato un breve comunicato: "Michael Jordan ha informato i Bulls di aver interrotto il suo volontario ritiro di 17 mesi. Esordirà domenica a Indianapolis contro gli Indiana Pacers."

Bastano queste poche parole per scatenare un delirio tra i tifosi, non solo quelli di Chicago. Il giorno dopo Michael Jordan si presenta a una conferenza stampa, ancora una volta superaffollata, con poche ma efficaci parole: "I'm back" ("Sono tornato")[2].

Come ulteriore segno di cambiamento, Michael sceglie di usare al posto del mitico numero 23 sulla maglia il 45, numero che aveva quando giocava a baseball da piccolo, e suo reale numero preferito.

Inizia un nuovo ciclo per i Chicago Bulls, che nei due anni senza Jordan avevano raggiunto risultati deludenti, arrivando comunque ai play-off. Con alcuni giocatori della vecchia squadra, come Scottie Pippen e alcuni nuovi innesti, tra i quali spiccano il croato Toni Kukoc (già avversario di Pippen e Jordan con la Croazia, ai Giochi olimpici di Barcellona) e Dennis Rodman, sempre sotto la guida di coach Phil Jackson, la squadra riprende la sua "routine" di vittorie nella stagione successiva a quella del ritorno di MJ. La stagione del ritorno dimostra che Michael ha risentito solo in parte dello stop di circa un anno e mezzo; la squadra comunque non riesce a raggiungere le finali, venendo eliminata ai play-off dagli Orlando Magic. Proprio in una gara di play-off contro Orlando, Jordan commette alcuni errori decisivi; il giocatore dei Magic Nick Anderson, in un'intervista, parla del numero 45 dei Bulls come di un giocatore forte ma non quanto il 23, che era paragonabile a Superman. Stuzzicato dal rivale, MJ dalla partita successiva in poi tornerà ad indossare la maglia numero 23 (che non abbandonerà più per il resto della carriera) pagando una multa per ogni partita di play-off giocata con quel numero (nella NBA infatti è proibito cambiare numero di maglia a stagione in corso senza richiederne preventivamente l'autorizzazione).


1996-1998: il secondo three-peat
Il basamento della statua di Jordan fuori dallo United Center.Scottato dalla sconfitta nella precedente serie di playoff, Jordan passa l'estate a prepararsi duramente in vista della nuova stagione. In quella che seguirà, la stagione 1995-96, Jordan è di nuovo protagonista assoluto e i Chicago Bulls ottengono un'altra stagione superlativa.

La squadra fa segnare un record assoluto nella NBA: sono la prima formazione nella storia della NBA a superare la soglia delle 70 vittorie nella regular season, vincendo ben 72 partite su 82, un risultato senza precedenti[11]. Con una line-up composta da Jordan, Ron Harper, Scottie Pippen, Dennis Rodman e Luc Longley, nonché probabilmente la miglior panchina della Lega, soprattutto grazie a Steve Kerr e Toni Kukoc, i Bulls migliorarono tantissimo rispetto alla stagione precedente, passando da un record di 47-35 a 72-10. Jordan vinse il suo ottavo titolo di marcatore e Rodman il suo quinto consecutivo da rimbalzista, mentre Kerr guidò la Lega nel tiro da tre punti. Jordan ottenne la cosiddetta Triple Crown, la prestigiosa e quasi impossibile impresa dei tre premi come MVP: infatti in questa stessa stagione Michael è MVP dell'All Star Game, MVP della stagione regolare e MVP delle finali[12], vinte contro i Seattle SuperSonics. Il manager Jerry Krause fu il "dirigente dell'anno", Jackson vinse il suo primo premio come allenatore dell'anno e Kukoc fu il sesto uomo dell'anno. Sia Scottie Pippen che Michael Jordan furono parte dell'All-NBA First Team e gli stessi due insieme a Dennis Rodman fecero parte anche dell'All-Defensive First Team. La squadra trionfò contro Gary Payton, Shawn Kemp e i loro Seattle SuperSonics vincendo il quarto titolo.

Per molti critici si tratta della più forte squadra nella storia NBA; nasce l'idea di un campione e di una squadra invincibili che scatena un fenomeno mediatico senza precedenti: la pressione è tale che i Bulls nelle loro trasferte devono viaggiare scortati e, nella prenotazione degli alberghi, sono costretti a riservarsi l'intero edificio per sfuggire all'assedio dei fans. L'NBA, sempre preoccupata che qualche suo membro catalizzi troppa attenzione rispetto al contesto generale, cerca rimedi e convince Magic Jonhson a fare ritorno sul campo dopo quasi 4 anni dal suo ritiro dal basket avvenuto ai Giochi olimpici di Barcellona e quasi 5 da quelli dai campi NBA. Questo avverrà, ma la non completa competitività dell'ormai anziano Magic non può realizzare appieno le aspettative della dirigenza della Lega professionistica che sembra ormai secondaria rispetto ad una sua parte: i Chicago Bulls, appunto, se non ad un suo singolo giocatore.

La stagione 1996-97 è ancora una stagione-record: i Bulls ottengono un record di vittorie-sconfitte di 69-13[13]. Ancora una volta, i play-off vedono i "tori" di Chicago protagonisti, e nelle finali arriva il quinto titolo dopo la vittoria in finale contro gli Utah Jazz di Karl Malone e John Stockton.

Air guida la squadra durante la stagione 1997-98 che, anche se non emozionante come le precedenti, è comunque abbastanza convincente. Dopo una regular season non all'altezza delle due precedenti, i Chicago Bulls ritrovano lo smalto nei play-off e raggiungono nuovamente le finali, dove incontrano gli Utah Jazz per il secondo anno consecutivo, uscenti da un'agevole finale di Conference vinta con un secco 4-0 contro i Los Angeles Lakers. Arriva così il sesto titolo per Jordan, suggellato da una palla rubata dalle mani di Karl Malone e dallo splendido tiro proprio di MJ a 6,6 secondi dalla fine della sesta gara delle finali, giocata a Salt Lake City, entrato di diritto nella storia della pallacanestro: è il secondo three-peat per Michael e i Chicago Bulls.

È il suo saluto di congedo dalla NBA, anche se nessuno ancora lo sa. Poco tempo dopo la finale annuncia il suo secondo, e a detta di tutti definitivo, ritiro. Si dedica al suo secondo sport preferito, il golf, ed alla gestione dei Washington Wizards. [14]


Il secondo ritorno: i Washington Wizards
Nel 2001 i tifosi di tutto il mondo vengono colti di sopresa quando si comincia a diffondere l'ipotesi di un secondo ritorno di Air. Jordan decide di fare un passo in più, e da proprietario dei Washington Wizards torna ad essere giocatore. Questa volta la sua dichiarazione ai giornalisti tradisce le sue intenzioni e la sua concezione della pallacanestro, affermando di voler tornare unicamente "for the love of the game", ovvero "per amore del gioco".

Incredibile è l'interesse mediatico che si produce intorno al suo ritorno sul campo, e gli Wizards diventano in un lampo una delle squadre più seguite dell'intera NBA.

Durante le due stagioni nella nuova squadra, Jordan percepisce un compenso simbolico di un milione di dollari, devoluto interamente in beneficenza alle famiglie delle vittime degli attentati terroristici dell'11 settembre 2001.[15][16] Nonostante l'età, 38 anni, ed un infortunio che lo tiene fuori per parte della stagione 2001-02, partecipa naturalmente al suo 14° All-Star Game, a Filadelfia, dove riesce come sempre a creare spettacolo, con la sua classe e il suo talento. La sua prima stagione come Wizards finisce comunque con una media di 22,9 punti a partita[2].

Nella stagione 2002-03 ottiene una media di 20 punti a partita[2] e partecipa ancora una volta, l'ultima, all'All-Star Game, ad Atlanta, dove l'intera manifestazione viene organizzata per essere un tributo a MJ. Le divise della partita delle stelle furono fatte a copia delle divise dell'All-Star Game del 1988 di Chicago, nel quale Michael fu eletto per la prima volta MVP, e nell'intervallo il tributo al più grande di sempre, si realizzò sulle note di Hero, cantate da Mariah Carey, vestita per l'occasione con un abito che rappresentava insieme la maglia n°23 dei Washington Wizards e quella dei Chicago Bulls. Ripresa la partita, a circa tre secondi dalla fine, riesce a segnare uno splendido tiro in fade-away che sembrerebbe regalare la competizione alla squadra dell'Est; tuttavia, un fallo su Kobe Bryant effettuato da Jermaine O'Neal all'ultimo secondo riesce a ribaltare la situazione e tutto si conclude in una vittoria di 155 a 145 per l'Ovest, dopo un doppio overtime.

Nel corso della stagione, Jordan diventa il giocatore più anziano (38 anni) dell'NBA a segnare più di 40 punti in una partita, mettendone a segno 45 contro i New Jersey Nets e nello stesso fine settimana, a scanso di equivoci, realizzandone 51 contro gli Charlotte Hornets. La stagione seguente ne realizza altri 45 (migliorando quindi il record) contro i New Orleans Hornets. Nonostante i suoi sforzi, però, Jordan non riesce a coinvolgere fino in fondo i compagni ed a formare un gruppo valido né nella stagione 2001-02 né in quella seguente, non riuscendo a portare i Washington Wizards ai play-off. Questo a dispetto della presenza di numerosi giovani di talento come Richard Hamilton (scambiato per Jerry Stackhouse ad inizio stagione 2002-03) il quale farà poi fortuna con i Detroit Pistons o come Larry Hughes finito poi fuori rotazione. Verso la fine della stagione 2002-03 Jordan viene addirittura isolato da alcuni compagni i quali cominciano a trovare opprimenti i suoi metodi di allenamento e gestione della squadra. Queste stesse motivazioni saranno alla base del suo licenziamento in qualità di presidente da parte del proprietario Abe Pollin. Le ultime partite di Air in giro per le arene della NBA diventano momenti per i fan avversari di dare un ultimo grande saluto al Jordan giocatore, prima passando dalla sua Chicago, per l'ultima partita nel "suo" United Center, per arrivare a Filadelfia, da Allen Iverson, alla 82a partita di stagione regolare, dove si potrà assistere all'ultima sua schiacciata e all'ultimo tiro della sua carriera: un tiro libero che gli farà raggiungere i 20 punti di media in stagione.

Uscendo dalla partita a poco più di un minuto dal termine, avviene una standing ovation di tifosi, giocatori e addetti ai lavori, che costringe a fermare la partita per diversi minuti, mentre dal pubblico avversario si alza il coro "We Want Mike!".

Ma è veramente finita. È l'ultima apparizione su un parquet di Michael Jordan che, visibilmente emozionato, dopo aver salutato i giocatori avversari e gli amici presenti, si avvia verso gli spogliatoi.


Il terzo e ultimo ritiro
Jordan durante una partita di golf, uno dei suoi hobby preferitiAl termine della stagione 2002-03, si ritira per la terza ed ultima volta. Jordan conclude la sua carriera NBA con una media punti per partita di 30,12 nella stagione regolare, la più alta in tutta la storia dell'NBA,[2] superiore di pochi centesimi alla media punti del grande Wilt Chamberlain (30,06); è terzo come numero di punti segnati in carriera.

Nonostante alcune voci circolate negli USA ed in tutto il mondo durante l'estate del 2004, Jordan ha annunciato di non voler tornare sul parquet come giocatore professionista. Le indiscrezioni erano nate dopo la partecipazione del campione ad alcuni allenamenti degli Atlanta Hawks. Per Jordan si trattava di semplice divertimento, ma il giocatore ha espresso la volontà di restare nel mondo NBA come proprietario di un team.


La carriera fuori dal parquet
Alla fine dell'ottobre 2004, Giorgio Armani ha contattato MJ per cercare di convincerlo a venire a giocare in Italia, nella squadra dell'Olimpia Milano, sponsorizzata dal 2004 proprio dal celebre stilista, ottenendo, però, un nulla di fatto.

Nel 2006 il desiderio di Michael di dirigere una franchigia NBA si avvera. Infatti durante le Finali NBA, arriva l'annuncio che Jordan sarà il nuovo general manager dei giovani Charlotte Bobcats, franchigia della "sua" Carolina del Nord.

A dicembre 2007 MJ torna sul parquet disputando un allenamento [17] con i suoi Bobcats allo scopo di risollevare il morale della squadra dopo 10 sconfitte in 12 partite. Jordan ha comunque escluso categoricamente la possibilità di un suo ennesimo ritorno in campo.

Nell'aprile 2009 è stato introdotto ufficialmente nella Basketball Hall of Fame (insieme a John Stockton, David Robinson, Jerry Sloan e C. Vivian Stringer).


Merchandising
Ecco come l'azienda di articoli sportivi Nike ha stilizzato la sua sagoma per la linea di prodotti che lo riguarda il logo della Air JordanGli atleti professionisti sono stati a lungo associati nell'opinione comune al merchandising e alle promozioni commerciali e Jordan ha dimostrato un grande talento quando si arriva al fattore commerciale.

È celebre per il suo esteso lavoro commerciale per compagnie quali la Nike, con la sua propria linea dedicata Air Jordan che, partendo dalla sola produzione di scarpe, si è ormai estesa in molti altri campi.

È anche apparso in una campagna promozionale dei celebri fast food McDonald's, intitolata "Nothin' but net" ("niente eccetto la retina"), che comprendeva anche una serie di spot televisivi che proponevano una sfida amichevole tra Jordan stesso e Larry Bird, suo grande rivale ed amico. Oltre a questo, Jordan è apparso in un popolare spot della Gatorade dei primi anni '90, con in sottofondo il jingle "Be Like Mike" ("sii come Mike").

Nel 1996, la Warner Bros. diede a Jordan un ruolo di protagonista in un film ricco di effetti speciali, Space Jam, al quale partecipavano anche molti personaggi classici dei cartoni animati Warner Bros. quali Bugs Bunny, Daffy Duck e altri. Il giudizio della critica sul film fu tiepido, poiché molti lo videro solamente come un lungo spot commerciale in cui Jordan faceva la parte della leggenda del basket, quasi una divinità angelica. Nonostante questo, il film incassò più di 100 milioni di dollari solamente al botteghino, rinsaldando ulteriormente la reputazione di Jordan come figura capace di far guadagnare molto. Nel film compaiono anche grandi attori come Bill Murray e altri campioni NBA, tra i quali ancora Larry Bird. Nell'edizione italiana del film Jordan era doppiato da Massimo Corvo.

Nel 2002 un film per famiglie intitolato Il sogno di Calvin (titolo orginale Like Mike, ovvero "come Mike") trattava di una storia romanzata nella quale un ragazzino di nome Calvin viene casualmente in possesso di un paio di scarpette da basket del grande Michael Jordan. Queste scarpette procurano magicamente al ragazzino un'abilità sovrumana nel gioco del basket, così che egli diviene un atleta professionista prima di aver compiuto 12 anni.


Statistiche e cifre

I trofei, le cifre e i riconoscimenti [modifica]
Jordan vinse numerosi premi e batté molti record. Ecco un elenco dei premi vinti :[2][18][19]

Membro della Naismith Memorial Basketball Hall of Fame.
Incluso dalla NBA nella lista dei 50 giocatori più forti di tutti i tempi, durante le celebrazioni dell'All-Star Game 1997.
2 ori olimpici: Los Angeles 1984, Barcellona 1992
1 campionato NCAA: 1982, con North Carolina.
6 campionati NBA: 1991 - 1992 - 1993 - 1996 - 1997 - 1998
5 Premio NBA miglior giocatore dell'anno: 1988 - 1991 - 1992 - 1996 - 1998
1 Premio NBA matricola dell'anno: 1985
1 Premio NBA difensore dell'anno: 1988
6 Premio NBA miglior giocatore delle finali: 1991 - 1992 - 1993 - 1996 - 1997 - 1998
3 Premio NBA miglior giocatore dell'All-Star Game: 1988 - 1996 - 1998
2 Slam Dunk Contest (gara delle schiacciate): 1987 - 1988
Punti realizzati: oltre 31.452 (terza posizione assoluta)
Quintetto ideale: 1987, 1988, 1989, 1990, 1991, 1992, 1993, 1996, 1997, 1998
Miglior marcatore NBA (10 volte, record assoluto): 1987, 1988, 1989, 1990, 1991, 1992, 1993, 1996, 1997, 1998
Miglior marcatore NBA per stagioni consecutive (record assoluto condiviso col grande Wilt Chamberlain): dal 1987 al 1993
Quintetto difensivo ideale (9 volte, record assoluto): 1988, 1989, 1990, 1991, 1992, 1993, 1996, 1997, 1998
Miglior "stealer" (palle rubate): 1988, 1990, 1993
Punti segnati in una partita di regular season: 69 (contro Cleveland Cavaliers il 28/3/1990)
Convocazioni NBA All-Star Game: 1985, 1987, 1988, 1989, 1990, 1991, 1992, 1993, 1996, 1997, 1998, 2002, 2003

I record
Più alta media punti nella storia della NBA: 30,12
Più alta media punti a partita nei play-off: 33,4
Più alta media punti in una serie di finale: 41, nel 1993 contro i Phoenix Suns
Partite consecutive a segno in doppia cifra: 842
Punti totali segnati nei play-off: 5987
Punti totali segnati all'NBA All-Star Game: 262
Punti segnati in un tempo di una finale: 35, nel 1992 contro i Portland Trail Blazers
Punti segnati in una gara di play-off: 63, nel 1986 contro i Boston Celtics
Giocatore più volte nel quintetto difensivo ideale: 9
Giocatore più volte miglior marcatore dell'anno: 10
Giocatore più anziano ad aver realizzato più di 50 punti in una partita: 51 contro gli Charlotte Hornets a 38 anni
Giocatore ultraquarantenne ad aver segnato più di 40 punti in una partita: 43 contro i New Jersey Nets (stagione 2002-03)
Unico giocatore a realizzare una "tripla doppia" all'NBA All-Star Game (nel 1997)
Tiri liberi realizzati (20) e tentati (23) in un tempo di una partita (contro i Miami Heat il 30/12/1992)
Tiri liberi realizzati (14) e tentati (16) in un quarto di una partita
Tiri tentati in un tempo di gara di play-off: 25
Tiri da 3 segnati in un tempo di gara di play-off: 6
Tiri decisivi in carriera: 29
Tiri tentati, tiri liberi realizzati, percentuale al tiro e recuperi nei play-off
Canestri fatti in un tempo di gara di play-off: 24

Numeri di maglia
Michael Jordan ha indossato quattro diversi numeri di maglia nella sua intera carriera: il mitico 23, il 45 al ritorno dal suo primo ritiro, il 9 con la nazionale degli Stati Uniti alle Olimpiadi del 1984 e del 1992, ed il 12, nella stagione 1990-91, come maglia di emergenza, poiché in una gara contro gli Orlando Magic, ad Orlando, un tifoso si intrufolò negli spogliatoi e rubò la maglia di Jordan. Indossando quella maglia numero 12, senza il cognome stampato dietro, Jordan segnò 49 punti nella vittoria sui Magic.

La maglia numero 23 di Jordan è stata ritirata dai Chicago Bulls e dai Miami Heat, anche se Michael non ha mai giocato per questa squadra. Fu desiderio del presidente degli Heat, Pat Riley, fare un tributo a Jordan nella sua ultima gara a Miami nella stagione 2002-2003, innalzando al soffitto un banner raffigurante per metà la maglia dei Bulls e metà la maglia dei Wizards.

Jordan indossò il numero 23 poiché, quando era giovane, ammirava molto il fratello maggiore Larry, che giocava alla Laney High School, ed indossava il 45. Il 23 è la metà del 45 arrotondata per eccesso, poiché Michael sperava di diventare bravo a giocare, almeno la metà di quanto lo era suo fratello.


Tiri liberi
Un avversario racconta, in un film documentario su Air, di averlo sentito dire a Scottie Pippen di voler sbagliare il secondo tiro libero, riprendere la palla e metterla dentro per fare un gioco da tre punti. Il numero non riuscì in quella circostanza. In un'altra occasione Pippen sbagliò un libero e M.J. prese la palla al volo schiacciando e facendo canestro.

Durante una partita contro i Denver Nuggets, decise di scommettere con un avversario, il centro Dikembe Mutombo, giocatore africano leader della squadra al tempo al suo primo anno tra i professionisti, che avrebbe segnato un tiro libero a occhi chiusi. Il numero gli riuscì e voltandosi verso l'avversario gli disse: "Benvenuto in NBA".

Un'altra volta, avendo sbagliato il primo di due tiri liberi, trovò il modo di riscattarsi tirando e realizzando il secondo con la mano sinistra.

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